Van der Kolk impersonifica una nuova generazione di psichiatri che cerca nella ricerca sui traumi una risposta agli storici problemi della disumanizzazione farmacologica e contenitiva della psichiatria. La vecchia generazione socio-politica della chiusura dei manicomi è ormai pressoché estinta, vive ancora soprattutto in alcuni grandi pionieri della terapia familiare, come Mony Elkaim e Luigi Cancrini. Sono sempre di meno gli psichiatri interessati davvero alla psicoterapia, controcorrente vanno quindi Herman e Van der Kolk, un modello che ci auguriamo possa affermarsi.
Bessel inizia il libro da uno dei suoi primi pazienti: Tom, un veterano del Vietnam. Tom rifiuta i farmaci: “Ho pensato che, se grazie alle pillole, i miei incubi fossero scomparsi, avrei abbandonato i miei amici e le loro morti sarebbero state inutili” (p.12). Tom era rientrato a Boston da nove anni. Durante la sua formazione in psichiatria nulla aveva preparato Bessel a curare Tom (la diagnosi di disturbo post traumatico è stata introdotta nel DSM nel 1980).
La sua ricerca si basa sulle pioneristiche osservazioni di Kardiner (1941): i sintomi hanno origine dalla risposta di tutto il corpo al trauma originale. Il problema non sta solo nella testa/cervello. “Abbiamo scoperto che aiutare le vittime di trauma a trovare le parole per descrivere ciò che è accaduto loro è profondamente significativo, ma spesso, non sufficiente (p. 25) quindi l’assioma di Alexander non è sempre confermato. La mera consapevolezza non basta. Bessel ventenne studente di medicina, fa tirocinio in un reparto psichiatrico di élite di Harvard: “La quiete della notte sembrava aiutarli ad aprirsi, tanto da raccontarmi di aver subito abusi fisici, aggressioni e molestie: i perpetratori erano, per lo più, i loro stessi genitori, a volte alcuni parenti e, altre volte, compagni di classe o vicini di casa” p. 28. “Oggi è risaputo che più della metà delle persone che chiedono aiuto psichiatrico è composta da pazienti che sono stati aggrediti, abbandonati, trascurati o addirittura violentati da bambini, o che sono stati testimoni di violenza domestica” (p. 29).
L’impaccio fisico pare essere un’altra caratteristica ricorrente dei pazienti psichiatrici. Aggravato dai neurolettici, ma basicamente legato al danneggiamento post traumatico del corpo.
“Dopo aver condotto numerosi studi sui farmaci per il PTSD, capii che gli psicofarmaci hanno un importante rovescio della medaglia: finiscono con il distrarre dall’occuparsi dei problemi sottostanti” (p. 44).
“La dissociazione è l’essenza del trauma” (p. 76).
Ogni capitolo è basato su un coinvolgente esempio clinico. Nel quarto capitolo il drammatico incidente d’auto di una coppia di professionisti, Stan e Ute, che mostreranno reazioni post traumatiche molto diverse. Quella di lei è la depersonalizzazione (frozen, non sentire nulla) ha le sue radici nell’apprendimento infantile di Ute: spegnere il cervello quando la mamma le urlava contro (p. 82). Questo rimanda al numbing (ottundimento).
Questo libro è anche un utile riassunto e ricapitolazione di molta letteratura sul trauma, tra cui anche la teoria polivagale di Porges di cui può essere utile ricordare la gerarchia delle risposte al pericolo (tre livelli di sicurezza – p. 92).
1) Il coinvolgimento sociale, chiedere aiuto, piangere;
2) attacco e fuga;
3) congelamento/collasso.
L’attivazione del terzo livello porta ai sintomi più gravi: schizofrenia II o ebefrenica, gravi depressioni.
L’attivazione del sistema di attacco e fuga fa sì che le persone si sentano almeno piene di energie (p. 95). Infatti è stata una storica strategia di cura della depressione quella di spingere il paziente a tirar fuori la sua aggressività repressa, anche se talvolta con l’esito negativo di cadere nell’eccesso opposto: dinamica tipica della grave personalità post traumatica, che può passare dalla riorganizzazione sottomissione a quella tirannica.
Lo storico studio ACE (p. 77) ha dimostrato che donne con una storia precoce di abuso e trascuratezza hanno una probabilità sette volte maggiore di essere stuprate da adulte.
“Talvolta usiamo una parte della mente non per scoprire i fatti, ma per nasconderli. Usiamo una parte della mente come schermo per impedire ad un’altra sua parte di sentire quel che accade altrove. La schermatura non è necessariamente intenzionale” (p. 108).
Un riferimento importante sono le terapie somatiche sviluppate da Peter Levine e Pat Ogden, che hanno tra obiettivi:
- Estrapolare le informazioni corporee, bloccare e congelate nel trauma;
- Aiutare i pazienti a familiarizzare (invece che a reprimere) con le energie rilasciate dall’esperienza interna;
- Completare le azioni fisiche auto preservanti che non hanno potuto compiere, essendo stati intrappolati, trattenuti o immobilizzati dal terrore (p. 113-114).
Fenomeni collegati all’alessitimia: non si sono parole per le emozioni, un gradino più in basso sulla scala dell’auto oblio c’è la depersonalizzazione: la perdita del senso di sé stessi (p. 115).
Le vittime di traumi non possono guarire fintanto che non familiarizzano e “diventano amiche” delle loro sensazioni corporee (p. 116: ovvio il collegamento con a mindfulness).
“Le radici della resilienza sono da ricercarsi in quella sensazione di essere compresi e presenti nella mente e nel cuore di un altro che ci ama, che è sintonizzato e che è padrone di sé” (Diana Fosha) p. 23.
Un vademecum per la psicoterapia ingannevolmente semplice? In ogni caso sintetizza molto bene quella che noi abbiamo teorizzato come terza fase della resilienza.
L’autore (o i traduttori?) hanno coniato il neologismo “attaccamentisti” per i ricercatori sull’attaccamento quali Trevarthen, Tronick o Lyons-Ruth. Noi siamo dei clinici attaccamentisti?
In uno studio dei pattern di attaccamento su 2000 bambini provenienti da ambienti “normali” della classe media, il 62% risulta essere sicuro, il 15% evitante, il 9% ansioso ambivalente e il 15% disorganizzato (p. 137). I bambini di un ceto sociale più basso hanno più probabilità di essere disorganizzati perché i genitori sono più stressati.
La disorganizzazione dell’attaccamento può rendere il bambino molto sgradevole e questa è la causa scatenante del maltrattamento.
Lyons-Ruth si aspettava che il comportamento ostile/intrusivo delle madri fosse il più tossico, scoprì invece che il ritiro emotivo aveva un impatto più profondo e più a lungo termine (p. 140).
Bessel racconta di collaborare dal 1985 con la Herman, a partire dallo scoprire quanti pazienti con diagnosi borderline raccontano storie orribili della loro infanzia.
Le ricerche di Felitti (p. 168) mostrano una connessione importante tra esperienze sfavorevoli infantili e problemi di apprendimento, una connessione statistica parimenti importante vale per i casi di stupro, come abbiamo visto poco sopra.
Riconoscere i profondi effetti del trauma e della privazione sullo sviluppo del bambino non conduce a incolpare i genitori (p. 193).
Viene sottolineata l’attualità della fondamentale scoperta di Freud, descritta in un articolo con Breuer del 1893 (successivamente abiurata). “I singoli sintomi isterici scomparivano subito e in modo definitivo quando si era riusciti a ridestare con piena chiarezza il ricordo dell’evento determinante, risvegliando contemporaneamente anche l’affetto che l’aveva accompagnato, e quando il malato descriveva l’evento nel modo più completo possibile esprimendo verbalmente il proprio affetto” (Freud – Breuer, 1893). Ricordare senza affetto non produce quasi mai dei risultati (Van der Kolck, p. 209).
Purtroppo non sempre ricordare il trauma nella sua interezza lo risolve (p. 224).
A proposito di ricordi rimossi è importante la ricerca della Williams su 206 ragazze che tra i dieci e i dodici anni erano state ricoverate in pronto soccorso a causa di un abuso sessuale. A diciassette anni di distanza risultò che più di un terzo non ricordava l’abuso (p. 220-221).
La quinta ed ultima parte del libro è un’utile sintesi di tutte le terapie che Van der Kolk considera fondamentali: mindfulness/yoga, psicoterapia, EMDR, il modello di Schwartz dei diversi sé (IFS: Internal Family Sistems o terapia dei sistemi familiari interni), il modello di Al Pesso delle strutture, neurofeedback, teatro.
Minfulness: imparare ad osservare e a tollerare le proprie reazioni fisiche è un prerequisito fondamentale per “rivisitare” il passato in modo sicuro. Se non si può tollerare ciò che si sta provando nel qui ed ora, l’apertura al passato comporterà solo estremo disagio e ulteriore traumatizzazione (p. 239).
A proposito di condivisione: “Studi condotti durante la seconda guerra mondiale in Inghilterra dimostrano che i bambini che vivevano a Londra durante il blitz ed erano stati mandati in campagna perché fossero protetti dai bombardamenti tedeschi se la cavarono molto peggio dei bambini che rimasero con i loro genitori e trascorsero le notti nei rifugi a contatto con immagini terrifiche” (p. 241).
I benefici di esperienze come la danza, i canti corali, l’aikido, kick boxing, il massaggio terapeutico, il feldenkrais, la maratona, il lavoro con gli animali.
“Si può avere sete di un tocco ed è molto confortante essere toccati in modo confidenziale, profondo, fermo, dolce e sensibile” (p. 248).
“Essere traumatizzati non significa solo essere bloccati nel passato; si tratta più che
altro di non essere pienamente vivi nel presente” (p. 253).
Un paragrafo dedicato ai farmaci (p. 256-260).
La psicoterapia
Date parole al vostro dolore; il dolore che non parla sussurra al cuore troppo gonfio e lo invita a spezzarsi (Macbeth) (p. 263).
Nel caso di traumi che colpiscono persone normali queste condividono spontaneamente, non hanno bisogno di psicoterapia, più efficace la diversità di un intervento corporeo (ricerche sull’11 settembre e le Torri Gemelli, p. 264).
Bessel svela i suoi traumi (p. 265).
Pennebaker e le tecniche di scrittura (p. 273).
A proposito di EMDR a p. 290 si raccontano esempi di persone trattate con successo che non riuscivano a raccontare il trauma al terapeuta, ma riuscivano a visualizzarlo.
Il metodo delle strutture di Albert Pesso, un insegnante di danza, consente come di tornare indietro nel film della nostra vita per riscriverne le scene cruciali. È una tecnica molto simile alle sculture o alle costellazioni in cui però possono essere impersonati dei genitori ideali che vanno come a sostituire quelli reali. Una sorta di installazione di ricordi positivi. (Vedi l’intervista di Piera Serra su psichotherapyjournal.org
Curiosamente, nel capitolo sul teatro, si cita la stessa tecnica che utilizziamo sempre nelle nostre esperienze di comunicazione non verbale (condurre per mano un compagno bendato) p. 385.
Leggete, sperimentate e riflettete!
Matteo Selvini